Riconfigurazione della fornitura globale di abbigliamento: chi produrrà il “Made in China” di domani?

La Cina perde terreno nell’export mondiale di abbigliamento, scesa dal 54% al 41%. Secondo Coface, India, Bangladesh, Vietnam e Turchia sono i nuovi poli del “Made in China” di domani.

7/2/20253 min read

Fine di un’era: la Cina perde il primato nella moda globale

Per oltre vent’anni la Cina è stata la fabbrica del mondo dell’abbigliamento. Ma oggi il suo dominio si sta indebolendo.
Secondo Coface, la quota cinese nelle esportazioni globali di abbigliamento e calzature è scesa dal 54% nel 2010 al 41% nel 2023.

Le cause?

  • Aumento dei salari (+6% annuo medio dal 2010),

  • regolamentazioni ambientali più rigide,

  • modello economico basato sulla subfornitura per i grandi brand occidentali.

Le imprese cinesi, pur rappresentando quasi un quinto delle aziende del settore tessile-abbigliamento mondiale, generano solo il 10% dei profitti globali.

L’effetto Trump e la spinta alla diversificazione

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2025 e la sua politica commerciale aggressiva verso Pechino accelerano la riconfigurazione delle catene globali di fornitura.

Coface ha sviluppato un indice di attrattività dei Paesi per la produzione di abbigliamento, considerando fattori come:

  • costo del lavoro,

  • infrastrutture logistiche,

  • stabilità politica,

  • normative ambientali.

🌏 Scenario 1 – Dazi uniformi del 10% (eccetto la Cina)

In questo scenario, i Paesi più competitivi risultano:

  1. Bangladesh

  2. Cambogia

  3. Pakistan

  4. Vietnam

  5. Sri Lanka

  6. India

Tutti beneficiano di manodopera a basso costo, filiere già sviluppate e una forte specializzazione nel tessile.

🌍 Scenario 2 – Dazi reciproci differenziati

Se gli USA applicassero dazi differenziati tra i partner commerciali, i Paesi europei come Albania, Georgia e Tunisia guadagnerebbero terreno grazie a costi competitivi e minore dipendenza dagli Stati Uniti.

La nuova geografia del “Made in China”

Il focus Coface evidenzia come l’Asia meridionale e sudorientale sia destinata a raccogliere l’eredità della Cina.
In particolare:

  • Bangladesh e Vietnam hanno assorbito la maggior parte delle quote perse da Pechino.

  • L’India si propone come doppia opportunità: hub produttivo e mercato interno in espansione (60% della popolazione sarà classe media entro il 2047).

  • La Turchia e i Paesi del Nord Africa (Marocco, Tunisia) possono rafforzarsi grazie al nearshoring verso l’Europa.

Moda sostenibile e nuove regole: un altro colpo al modello cinese

Oltre alla pressione dei dazi, le nuove normative europee e statunitensi mettono in crisi il modello cinese basato sulla produzione intensiva a basso costo.

Tra le principali:

  • Direttiva europea sulla responsabilità estesa del produttore (EPR) – dal 2025 obbligo di finanziare raccolta e riciclo dei prodotti tessili.

  • Green Claims Directive – dal 2025, stop al greenwashing.

  • Regolamento Ecodesign (2026/27) – requisiti obbligatori di durabilità e riciclabilità.

  • Digital Product Passport (DPP) – dal 2027, tracciabilità digitale dei capi.

  • Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) – dal 2028, obbligo di rendicontazione ESG.

A questi si aggiungono:

  • il divieto europeo sui prodotti realizzati con lavoro forzato (entro il 2027);

  • la “eco-tassa” francese e i limiti alla pubblicità sull’ultra-fast fashion.

Tutti elementi che aumentano i costi di conformità per i produttori cinesi e spingono i brand occidentali a diversificare i fornitori.

L’evoluzione dei colossi della moda

I grandi brand si stanno già adattando.
Nel caso di H&M, la Cina rappresenta ancora il 28% dei fornitori di lungo termine, ma solo il 17% di quelli nuovi, sostituita progressivamente da Turchia e India.

Parallelamente, sta emergendo la “ultra-fast fashion” cinese, dominata da piattaforme come Shein e Temu, che sfruttano modelli produttivi iper-rapidi e digitalizzati, ma ora nel mirino delle nuove normative ambientali.

Il paradosso della catena a monte: la dipendenza da Pechino resta

Nonostante la delocalizzazione delle fasi di assemblaggio, la produzione di materiali e semilavorati resta saldamente cinese.

Oggi la Cina controlla:

  • il 63% delle esportazioni mondiali di semilavorati per abbigliamento e calzature,

  • il 33% delle esportazioni di fibre tessili intermedie (contro il 4% nel 2000).

Molti nuovi hub produttivi — come Vietnam e Bangladesh — dipendono ancora dalle forniture di tessuti e filati cinesi, il che limita la reale indipendenza delle loro catene di approvvigionamento.

Conclusione: il “Made in China” del futuro sarà policentrico

Il baricentro dell’industria della moda mondiale si sta spostando, ma non scomparirà dalla Cina:

  • Pechino rimarrà leader nelle fasi a monte (filati, fibre, tessuti).

  • L’Asia meridionale diventerà la nuova officina del mondo per l’abbigliamento.

  • L’Europa e il Nord Africa guadagneranno peso con il nearshoring sostenibile.

In questa riconfigurazione, le imprese europee del fashion dovranno gestire non solo nuovi rischi logistici e doganali, ma anche rischi di credito e di controparte, per cui strumenti come l’assicurazione del credito commerciale offerta da Coface restano fondamentali.

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